Personaggi dello sport: Mircea Lucescu

Da quarant’anni Mircea Lucescu scruta il mondo con gli stessi occhi impassibili. Chiamarlo “volpone” è diventato ormai un luogo comune a cui non ha saputo sottrarsi neanche Guardiola, come sempre prodigo di complimenti, che prima del quarto di finale di Champions 2011 Barcellona-Shakhtar lo chiamò “Furbescu”: si vede che non aveva ancora metabolizzato i 25 milioni versati due anni prima ai minatori per assicurarsi i non irresistibili servigi di Dmitro Chigrinsky, seduttore del Pep in una notte monegasca di Supercoppa Europea.  Mircea Lucescu è il quinto allenatore della storia a tagliare il traguardo delle 100 panchine in Champions, dopo Ferguson, Wenger, Ancelotti e Mourinho, prima di lasciare nel 2016. Un anno non eccezionale allo Zenit, poi l’incarico di Commissario tecnico della Nazionale turca, un movimento da ricostruire. A settant’anni suonati è ancora un punto di riferimento indiscutibile nel suo Est, un calcio dove le cose non sono mai quelle che sembrano, proprio come lui.




Mircea Lucescu il "Volpone"


Come non ricordare gli anni felici vissuti al Brescia del Presidente Corioni con “la piccola Romania”. Hagi, Raducioiu, Sabau, Lupu e Mateut, vengono ricordati ancora oggi con riconoscenza dai tifosi, che ammirarono una squadra forse ingenua ma brillante, che non cedette mai alla tentazione delle barricate. Anni movimentati, anche, con due promozioni, due retrocessioni e congiunture irripetibili come l’acquisto dal Real Madrid di Gica Hagi  Un ragazzino di 16 anni e due giorni e la sua cessione due anni dopo al Barcellona di Cruijff .Andrea Pirlo, lanciato in serie A e portato nei decenni futuri come una gardenia all’occhiello.
Il suo esordio da allenatore è alla guida del piccolo Corvinul Hunedoara, in piena Transilvania, in cui svolge anche le mansioni di giocatore e non solo: scrive editoriali sulla stampa locale, conduce un programma alla radio e scrive addirittura l’inno del club. Alimenta la sua fama di poliglotta imparando italiano, francese e spagnolo dalle riviste di calcio che gli spediscono i suoi amici di università che sono riusciti a emigrare all’estero. A 36 anni diventa giovanissimo commissario tecnico della Romania ed è qui che la sua orbita incrocia per la prima volta quella del calcio italiano. Nel cammino verso l’Europeo 1984 capita nello stesso girone degli azzurri campioni del mondo di Bearzot, che in due partite non riescono a fargli lo straccio di un gol. 0-0 a Firenze e 1-0 a Bucarest, quando un tiraccio di Ladislao Boloni fa capire a Dino Zoff, alla penultima partita in Nazionale, che è suonata la campana dell’ultimo giro di pista.
Mircea si muove attorno ai microfoni con astuzia da felino. Spaccia per fenomeno un certo Balaci, definito “il Rivera dei Balcani”, dicendosi certo che è stato appena acquistato da una squadra italiana, forse il Milan, e poi esalta gli avversari sconfitti con enfasi guardiolesca, prima di Guardiola: «È stata la partita più ricca di agonismo che io abbia mai visto in vita mia». La Romania s’inerpica fino alla fase finale dell’Europeo, dove impone l’1-1 alla Spagna futura finalista prima di essere sconfitta di misura da Germania e Portogallo. In rosa c’è un 19enne di grandi speranze, Gheorghe Hagi, stella dello Sportul Studentesc, squadra di una certa fama internazionale a metà anni Ottanta (per informazioni chiedete agli interisti, che soffrirono le pene dell’inferno in un primo turno di coppa UEFA).



Lucescu in un suo tipico atteggiamento durante la partita



Allenatore della Dinamo vive in controluce gli ultimi controversi anni della dittatura della famiglia Ceausescu. Non vince mai il titolo ma si fa rispettare in Europa, spaventando per esempio la splendida Sampdoria di Vialli e Mancini o raggiungendo una semifinale di Coppa delle Coppe. Gli ultimi rintocchi del comunismo e la bella figura dei suoi ragazzi rumeni al Mondiale italiano, eliminati agli ottavi dall’Eire solo ai rigori, gli fanno capire che è il momento del grande salto.Tra i presidenti rampanti che lo corteggiano sceglie Romeo Anconetani e il suo Pisa, affascinato anche dalle bellezze paesaggistiche e artistiche della Toscana. Il colpo di mercato di quell’estate è più che immaginifico: arriva dal Velez un ragazzino argentino di 20 anni che solo per un soffio non è entrato nei 22 convocati al Mondiale da Carlos Bilardo. Ma Diego Simeone è ancora acerbo e, dopo due vittorie nelle prime due giornate, la stagione del Pisa inizia a declinare sì come il celebre campanile della cattedrale di Santa Maria Assunta. Dall’Italia Lucescu, nominalmente direttore tecnico, con Luca Giannini allenatore, impara subito la fruttuosa abitudine di dar sempre la colpa agli altri. L’esonero? Colpa di Anconetani. «Il presidente aveva preparato la partita con l’Inter al posto mio. Aveva completamente perso la testa». Ripeterà altre volte il copione, adeguandolo di volta in volta ai personaggi. Il flop all’Inter nel 1999? «Andò tutto bene fino a marzo, poi cominciarono a girare le voci su Marcello Lippi e la squadra mollò di schianto».
Lo aiuta il suo carattere morbido, sempre disponibile al compromesso e alla trattativa, che sa come trattare con la stampa.  Il suo decennio nel campionato italiano si chiude mestamente con il lungo inverno all’Inter, il solito frullatore impazzito a cui Lucescu si adegua un po’ supinamente. Dà spettacolo a San Siro, sommergendo di reti Roma, Venezia, Empoli e Cagliari, ma frana regolarmente in trasferta. Il crocevia è il quarto di finale di Champions con il Manchester United futuro pigliatutto: a Old Trafford perde 2-0, ma Schmeichel sfodera la parata del decennio su Zamorano e al suo pupillo Simeone viene annullato un gol che grida ancora vendetta; a San Siro, sull’1-0, Zé Elias calcia sui cartelloni la palla dei supplementari e il sipario cala di lì a poco. nella partita che gli vale l’esonero, uno 0-4 a Marassi contro la Sampdoria.
Salutata l’Italia Lucescu riprende a vincere dappertutto. Doma un circo di leoni come il campionato turco prima con il Galatasaray, dove regala all’Europa l’ultimo grande Hagi, e poi con il Besiktas che non vinceva il titolo da otto anni, sempre compassato, sempre sornione. È a questo punto che il suo genio duttile viene notato dal presidente dello Shakhtar Donetsk, Rinat Akhmetov, uomo con idee grandiose e ancora più denaro. Il vento del turbocapitalismo bussa forte e la coppia Akhmetov-Lucescu decide di assecondarlo con un ragionamento semplice, di elementare buonsenso. Da che Paese vengono, statisticamente, i giocatori più forti del mondo? Dal Brasile. Abbiamo abbastanza soldi per permettercene tre o quattro buoni, possibilmente giovani, di modo che a 24-25 anni – quando saranno stufi del freddo e della nebbia – potremo rivenderli magari al quadruplo, e comprarne di migliori?
Sopravvissuto negli anni a un incidente d’auto e a un’ischemia al cervelletto, Lucescu non ha la minima intenzione di gettare la spugna. Si diverte ancora un mondo, gli si addice l’aura da santone costruita negli anni con pazienza certosina e un certo senso del fatalismo: «Tutti si ricordano solo dell’ultimo risultato. Nel calcio ogni due o tre giorni sei una persona diversa». In trent’anni di carriera di lui non si ricordano sfuriate, intemerate, monologhi da show che vanno così di moda tra gli allenatori-divi di oggi; una qualità notevole per chi in questi trent’anni è dovuto scendere a patti con almeno due dittature, una guerra civile e un paio di rivoluzioni calcistiche.«Forse sono pazzo anch’io. Ma un pazzo tranquillo».
fonti varie
Marcello Spadola
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