Personaggi dello sport: Nereo Rocco
Da Sir Alex Ferguson a Johann Cruyff, da Arrigo Sacchi a José Mourinho, la Uefa ha indicato con una serie di profili individuali sul proprio sito internet, i 10 allenatori più influenti in Europa dalla nascita della organizzazione. Non mancano gli esclusi eccellenti, uno fra tutti Pep Guardiola. Questo l’elenco dei 10 migliori allenatore secondo la Uefa: 1. Brian Clough, storico managar del Nottingham Forest degli anni ’70, definito l’ultimo iconoclasta del calcio. 2. Johann Cruyff: l’uomo che reinventò il Barcellona. 3. Vicente del Bosque: la `mano morbida´ del Real Madrid e della Spagna. 4. Sir Alex Ferguson: il più grande tattico del Manchester United. 5. Helenio Herrera: il mago del catenaccio. 6. Udo Lattek: il pioniere del Bayern Monaco degli anni ’70. 7. Valeri Lobanovskiy: lo scienziato del calcio, mitico allenatore dell’Unione Sovietica e della Dinamo Kiev. 8. Rinus Michels: l’architetto olandese del `calcio totale´. 9. José Mourinho: semplicemente lo `Special One´. 10. Arrigo Sacchi: il maestro del Rinascimento italiano con il Milan degli invincibili. , Anche a me, lo confesso, è venuta la tentazione, come immagino a tanti di inserire qualche altro nome nell'elenco. L'assenza di allenatori dal significativo "curriculum" come Pep Guardiola e Nereo Rocco in primis è notevole. Non possiamo dimenticare infatti che al suo esordio da allenatore della Triestina in serie A, ottenne un secondo posto dietro il leggendario Torino di Valentino Mazzola grazie anche alla novità tattica del libero. Gianni Brera, strenuo difensore e amico di Rocco nella polemica ‘calcio all’italiana uguale a catenaccio’ rendeva chiaro al pubblico la tattica e allora perché si criticava il cosiddetto catenaccio? "Mi fazo catenaccio, lori xe prudenti"(io gioco con il catenaccio, gli altri, se lo fanno, sono definiti prudenti): colpiti ed affondati dal Paròn, senza scampo, i cultori dello spettacolo. Anche allora regnava l’esterofilia a tutti i costi vale a dire che il ‘bel modulo’era quello inglese, ungherese, brasiliano ecc. Tuttavia il calcio non era e non è una scienza esatta.
Ma veniamo al nostro "paron" personaggio non semplice ma piacevole da raccontare perchè ricco di mille sfaccettature che sotto la scorza da duro nasconde un animo da padre affettuoso. Sotto la superficie da allenatore burbero, si scopre un bonaccione di quelli con cui ti siederesti a tavola e ti alzeresti dopo una mezza dozzina d’ore, con il conto delle grappe perso, come quello delle risate. Sotto il dialetto triestino, si nasconde un fine filosofo. Eppure, Nereo Rocco da Trieste ha scritto la storia del calcio italiano e quella di tanti ragazzi che sotto la sua ala protettrice sono diventati uomini, e hanno scritto la storia a loro volta.
Nereo Rocco da Trieste ma con origini austriache, asburgiche quando viene al mondo, il 20 maggio del 1912, il suo cognome sarebbe Rock ma nel 1925 il padre decide che bisogna cambiarglielo quel cognome, perchè per andare a lavorare al porto, e a Trieste ci andavano in tanti, bisognava avere la tessera del fascio. E, con il cognome asburgico, la tessera del fascio non te la davano. Per cui, ecco l’italianizzazione del cognome, quel cognome che entrerà nella storia e nella leggenda del calcio.
Nereo Rocco fu l'inventore del catenaccio e diventò il "Paròn" d'Europa influenzando un’intera generazione con il suo calcio semplice. Fu il primo a portare in Italia la Coppa dei Campioni, vinta con il Milan nel 1963. Nel '69 concesse il bis contro l'Ajax di Cruijff. Le rivoluzioni, tutte le rivoluzioni, prima che delle idee, sono figlie dei bisogni. E non vengono dall’alto, ma dal basso, dal popolo e dalle sue esigenze. Lo dice la storia dell’uomo, e anche quella del calcio, più modestamente, se ne fa interprete. Dopo la sbornia "metodista", terminata più o meno al principio della Seconda Guerra Mondiale, in Italia si diffuse il "sistema", di derivazione inglese. Solo che questo nuovo modulo, il famoso WM, prevedeva duelli uomo-contro-uomo in tutte le zone del campo e vincevano sempre i più forti: nonc’era gusto.
Così, lentamente, dal basso appunto, sorse un movimento che si contrapponeva alla moda del periodo: erano gli allenatori delle piccole squadre, quelle che non avevano i campioni e che quindi giocando con il "sistema" erano destinate a perdere, a cercare soluzioni, a spaccarsi il cervello nel tentativo di invertire la tendenza. E, prova dopo prova, qualcosa cominciò a muoversi. Era, in sostanza, il calcio dei poveretti che si ribellava al destino.
Gipo Viani, alla guida della Salernitana fu il capostipite della rivoluzione: nella stagione 1946-47, mentre in Serie A furoreggiava il Grande Torino "sistemista" di Valentino Mazzola, vinse il campionato di Serie B adottando il cosiddetto "vianema", un modulo che prevedeva un uomo alle spalle dei tre difensori con la funzione di battitore libero. Viani non fu l’unico ad avere questa idea: a Trieste Nereo Rocco adottò lo stesso stratagemma per supplire alla carenza di qualità e arrivò secondo dietro al Torino nel campionato 1947-48. Il concetto base di quel modo di fare calcio era semplice: primo non prenderle. Rocco, detto il Paròn (il Padrone), con il suo buonsenso e con la naturale simpatia che ispirava, fu l’allenatore che, più degli altri, influenzò un’intera generazione. Nulla era scientifico nel suo metodo, e forse anche per questo piaceva e incantava. Il suo era un calcio "pane e salame", e magari un buon bicchiere di vino rosso... Al centro di tutto c’era la persona, l’uomo, con i suoi vizi e le sue virtù, con i suoi problemi e con i suoi colpi di genio. Rocco, anche per l’aspetto fisico, più che a un allenatore assomigliava a un padre di famiglia, uno che lavorava sodo, portava a casa lo stipendio e badava che non ci fossero tensioni e liti tra le quattro mura di casa. Se gli avessero fatto vedere, oggi, le azioni vivisezionate al computer o gli avessero parlato del possesso-palla, avrebbe reagito con una semplice frase: "Tasi, mona!". Tradotta, e un po’ edulcorata, sarebbe: "Taci, scemo!". Il catenaccio nasce quindi dalla paura dei più deboli per diventare arma dei più forti. Perchè non c’è allenatore più intelligente di quello che riesce a capire quando mettere i suoi giocatori tutti dietro la linea della palla ad aspettare.Venite voi a prenderci, se ne siete capaci. Perchè in fondo, vincere è l’unica cosa che riesca a dare un senso a questo viaggio chiamato calcio. Certo, si può restare nel cuore degli appassionati, ma per incidere il proprio nome sui libri di storia, a volte serve anche l’arte di arrangiarsi. E il coraggio di dichiararsi orgogliosamente catenacciari. belle del catenaccio, ne troviamo poche. L’unica materia che noi italiani abbiamo divulgato, è stata il catenaccio. L’immagine dell’Italia all’estero si alimenta di continui stereotipi, molti dei quali, non si fa fatica ad ammetterlo, contribuiamo noi stessi giorno dopo giorno a rinforzare. Pizza e mandolino. Santi, poeti, navigatori. Ma nel mondo del calcio, lo stereotipo italiano si può ben identificare con una parola, una sola: catenaccio.
Deprecato, messo all’indice, deriso. Per chi ci guarda da fuori, il catenaccio è motivo di derisione, di umiliazione, di vergogna quasi. Eppure, sul campo da calcio, poche cose sono più nobili del catenaccio. Poche cose trasmettono profondo rispetto nei confronti dell’avversario, umiltà e accettazione dei propri limiti quanto mettersi tutti dietro la linea della palla e aspettare, sperare, pregare. Sarà anche brutto, sarà anche italiano, sarà anche un oltraggio all’anima del football per chi lo guarda da un immaginario piedistallo ma noi, cari maestri del football, non giochiamo certo per appagare il vostro o il nostro senso estetico. Se volete lo spettacolo, andate al cinema, al teatro, al circo. Se volete lo spettacolo, non pagatelo nemmeno il biglietto d’ingresso allo stadio, non accendetela neanche la televisione quando giochiamo noi. Da noi divertimento non ne avrete. Sangue, sudore e lacrime, quante ne volete. Ma divertimento, quando giochiamo noi, è parola bandita. Non nasce in Italia, il catenaccio. I libri di storia del calcio dicono che sia frutto della mente di un austriaco, Karl Rappan, che, allenando la Svizzera negli anni ’30 e dovendo affrontare quasi sempre avversari più forti dei suoi ragazzi, ebbe l’intuizione di arretrare un altro giocatore sulla linea della difesa. A fare sostanza, non apparenza. Non nasce in Italia, il catenaccio, ma in Italia trova terreno prospero, per diventare leggenda con Nereo Rocco, con Helenio Herrera che pur rifiutando la nomea di "catenacciaro", sotto sotto lo era.
Ma non c’è niente di male ad essere "catenacciari", anzi. E’ tutta una questione di ordine, rigore tattico, disciplina, certo ma è anche e soprattutto questione di nervi, di testa.
Entrare sottopelle all’avversario, aspettarlo, bassi, chiusi e ordinati. Aspettarlo, per tutta la partita se necessario. Aspettarlo, ricercando minuziosamente lo spazio per la ripartenza. Aspettarlo, farlo crollare, farlo impazzire, costringerlo a scoprirsi nell'affannosa ricerca della chiave per aprire quel maledetto catenaccio. E poi, quando arriva il momento, silenziosamente colpire, in contropiede. Lasciando l’avversario con la sua chiave in mano, oramai inutile.
fonti varie
Marcello Spadola
© Copyright Riproduzione riservata
Nereo Rocco con Gianni Rivera |
Nereo Rocco da Trieste ma con origini austriache, asburgiche quando viene al mondo, il 20 maggio del 1912, il suo cognome sarebbe Rock ma nel 1925 il padre decide che bisogna cambiarglielo quel cognome, perchè per andare a lavorare al porto, e a Trieste ci andavano in tanti, bisognava avere la tessera del fascio. E, con il cognome asburgico, la tessera del fascio non te la davano. Per cui, ecco l’italianizzazione del cognome, quel cognome che entrerà nella storia e nella leggenda del calcio.
Nereo Rocco fu l'inventore del catenaccio e diventò il "Paròn" d'Europa influenzando un’intera generazione con il suo calcio semplice. Fu il primo a portare in Italia la Coppa dei Campioni, vinta con il Milan nel 1963. Nel '69 concesse il bis contro l'Ajax di Cruijff. Le rivoluzioni, tutte le rivoluzioni, prima che delle idee, sono figlie dei bisogni. E non vengono dall’alto, ma dal basso, dal popolo e dalle sue esigenze. Lo dice la storia dell’uomo, e anche quella del calcio, più modestamente, se ne fa interprete. Dopo la sbornia "metodista", terminata più o meno al principio della Seconda Guerra Mondiale, in Italia si diffuse il "sistema", di derivazione inglese. Solo che questo nuovo modulo, il famoso WM, prevedeva duelli uomo-contro-uomo in tutte le zone del campo e vincevano sempre i più forti: nonc’era gusto.
Gipo Viani ed Hector Puricelli |
Helenio Herrera con Giacinto Facchetti |
Karl Rappan |
Gipo Viani, alla guida della Salernitana fu il capostipite della rivoluzione: nella stagione 1946-47, mentre in Serie A furoreggiava il Grande Torino "sistemista" di Valentino Mazzola, vinse il campionato di Serie B adottando il cosiddetto "vianema", un modulo che prevedeva un uomo alle spalle dei tre difensori con la funzione di battitore libero. Viani non fu l’unico ad avere questa idea: a Trieste Nereo Rocco adottò lo stesso stratagemma per supplire alla carenza di qualità e arrivò secondo dietro al Torino nel campionato 1947-48. Il concetto base di quel modo di fare calcio era semplice: primo non prenderle. Rocco, detto il Paròn (il Padrone), con il suo buonsenso e con la naturale simpatia che ispirava, fu l’allenatore che, più degli altri, influenzò un’intera generazione. Nulla era scientifico nel suo metodo, e forse anche per questo piaceva e incantava. Il suo era un calcio "pane e salame", e magari un buon bicchiere di vino rosso... Al centro di tutto c’era la persona, l’uomo, con i suoi vizi e le sue virtù, con i suoi problemi e con i suoi colpi di genio. Rocco, anche per l’aspetto fisico, più che a un allenatore assomigliava a un padre di famiglia, uno che lavorava sodo, portava a casa lo stipendio e badava che non ci fossero tensioni e liti tra le quattro mura di casa. Se gli avessero fatto vedere, oggi, le azioni vivisezionate al computer o gli avessero parlato del possesso-palla, avrebbe reagito con una semplice frase: "Tasi, mona!". Tradotta, e un po’ edulcorata, sarebbe: "Taci, scemo!". Il catenaccio nasce quindi dalla paura dei più deboli per diventare arma dei più forti. Perchè non c’è allenatore più intelligente di quello che riesce a capire quando mettere i suoi giocatori tutti dietro la linea della palla ad aspettare.Venite voi a prenderci, se ne siete capaci. Perchè in fondo, vincere è l’unica cosa che riesca a dare un senso a questo viaggio chiamato calcio. Certo, si può restare nel cuore degli appassionati, ma per incidere il proprio nome sui libri di storia, a volte serve anche l’arte di arrangiarsi. E il coraggio di dichiararsi orgogliosamente catenacciari. belle del catenaccio, ne troviamo poche. L’unica materia che noi italiani abbiamo divulgato, è stata il catenaccio. L’immagine dell’Italia all’estero si alimenta di continui stereotipi, molti dei quali, non si fa fatica ad ammetterlo, contribuiamo noi stessi giorno dopo giorno a rinforzare. Pizza e mandolino. Santi, poeti, navigatori. Ma nel mondo del calcio, lo stereotipo italiano si può ben identificare con una parola, una sola: catenaccio.
Deprecato, messo all’indice, deriso. Per chi ci guarda da fuori, il catenaccio è motivo di derisione, di umiliazione, di vergogna quasi. Eppure, sul campo da calcio, poche cose sono più nobili del catenaccio. Poche cose trasmettono profondo rispetto nei confronti dell’avversario, umiltà e accettazione dei propri limiti quanto mettersi tutti dietro la linea della palla e aspettare, sperare, pregare. Sarà anche brutto, sarà anche italiano, sarà anche un oltraggio all’anima del football per chi lo guarda da un immaginario piedistallo ma noi, cari maestri del football, non giochiamo certo per appagare il vostro o il nostro senso estetico. Se volete lo spettacolo, andate al cinema, al teatro, al circo. Se volete lo spettacolo, non pagatelo nemmeno il biglietto d’ingresso allo stadio, non accendetela neanche la televisione quando giochiamo noi. Da noi divertimento non ne avrete. Sangue, sudore e lacrime, quante ne volete. Ma divertimento, quando giochiamo noi, è parola bandita. Non nasce in Italia, il catenaccio. I libri di storia del calcio dicono che sia frutto della mente di un austriaco, Karl Rappan, che, allenando la Svizzera negli anni ’30 e dovendo affrontare quasi sempre avversari più forti dei suoi ragazzi, ebbe l’intuizione di arretrare un altro giocatore sulla linea della difesa. A fare sostanza, non apparenza. Non nasce in Italia, il catenaccio, ma in Italia trova terreno prospero, per diventare leggenda con Nereo Rocco, con Helenio Herrera che pur rifiutando la nomea di "catenacciaro", sotto sotto lo era.
Ma non c’è niente di male ad essere "catenacciari", anzi. E’ tutta una questione di ordine, rigore tattico, disciplina, certo ma è anche e soprattutto questione di nervi, di testa.
Entrare sottopelle all’avversario, aspettarlo, bassi, chiusi e ordinati. Aspettarlo, per tutta la partita se necessario. Aspettarlo, ricercando minuziosamente lo spazio per la ripartenza. Aspettarlo, farlo crollare, farlo impazzire, costringerlo a scoprirsi nell'affannosa ricerca della chiave per aprire quel maledetto catenaccio. E poi, quando arriva il momento, silenziosamente colpire, in contropiede. Lasciando l’avversario con la sua chiave in mano, oramai inutile.
fonti varie
Marcello Spadola
© Copyright Riproduzione riservata
Commenti
Posta un commento